SCHUBERT - DIE ZAUBERHARFE
Musiche per uno Zauberspiel in 3 atti
Palmerin - Thomas Moser
Un Cavaliere - József Németh
Attori - Christine Ostermayer, Walter Schwickerath, Roswitha Dierck, Kurt Schossmann, Otto Edelmann
Teatro Nazionale di Szeged
Tito Gotti
Registrazione dal vivo del 1983
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Accanto ad Alfonso und Estrella e a Fierrabras, Die Zauberharfe è oggi una delle opere teatrali schubertiane più eseguite, o, quantomeno, suoi allestimenti circolano con una certa regolarità, uscendo anche dai confini della Germania e dell’Austria (ricordiamo la rappresentazione bolognese del 1983). A questo lavoro, in particolare, è connessa una piccola curiosità: la sua ouverture venne, non si sa quando né per quale motivo, sostituita a quella che doveva aprire le musiche di scena per Rosamunde e finì quindi per conquistarsi una personale popolarità sradicata dal contesto originario. Solo recentemente si è dimostrato che la vera collocazione della presunta ouverture di Rosamunde era invece Die Zauberharfe, districando così i nodi di un equivoco che era andato complicandosi ancor più a causa della circolazione di una versione di Alfonso und Estrella contenente a sua volta la stessa ouverture; fra l’altro, il testo completo di quest’opera-melologo è andato perso ed è stato possibile ricostruirlo solo in base alle annotazioni residue lasciate da Schubert sulla partitura. Per melologo si intende la soluzione del rapporto musica-parola teorizzata e sperimentata per la prima volta da Jean Jacques Rousseau (il cui Pigmalion è del 1770), ma rimasta abbastanza inconsueta nella pratica operistica: anziché cantare, e magari alternare alle arie e ai cori le sezioni parlate o in stile di recitativo, ci si limita a declamare il testo, in modo che l’orchestra accompagni la parola recitata. Cherubini era ricorso al melologo in una scena della Medea, Beethoven aveva fatto altrettanto nel Fidelio e non troppo di rado si incontravano esempi analoghi nell’opera francese; ma l’espediente restava limitato a momenti circoscritti e di intensa drammaticità. Il fatto che l’intera Zauberharfe sia impostata sul principio del melologo conferma le deduzioni che si traggono dalla conoscenza del teatro schubertiano: innanzitutto il compositore aveva eletto a suoi modelli – oltre a Gluck e a Mozart – Cherubini e Spontini, profeti della grande opera tragica cui egli stesso ambiva di arrivare, e ricorreva quindi a un espediente drammatico che essi soli, pur nel loro parco uso, avevano immortalato in quest’ambito. Nello stesso tempo, però, il melologo furoreggiava nei teatri popolari dell’epoca come struttura privilegiata di ‘drammoni’ a effetto, che non mancavano di strabiliare il pubblico; dopo il successo del francese Pixérécourt (che lo chiamava mélodrame) il melologo si era trapiantato infatti anche nei paesi tedeschi con la funzione ancillare di colonna sonora. I caparbi approcci operistici di Schubert non vanno considerati come triste esempio di mancanza di autocritica, ma come disperato tentativo di sottrarsi alle ristrettezze economiche tramite la notorietà che solo un successo operistico poteva assicurare; e in questa prospettiva non stupisce che l’occhio di Schubert sia caduto sull’ennesimo ‘polpettone’ alla moda e per giunta su una formula estetica consacrata sì da grandi autori, ma anche gradita, pur sotto una veste degradata, al pubblico contemporaneo.
Insieme a Die Zwillingsbrüder (Vienna), Die Zauberharfe è l’unica opera di Schubert rappresentata vivente l’autore; se si eccettua qualche isolato apprezzamento nei confronti della musicalità di Schubert, la reazione della critica fu negativa, e quella del pubblico non dovette essere molto più incoraggiante, tanto che dopo poche repliche l’opera fu tolta dal cartellone. Non giova naturalmente all’ispirazione schubertiana la massiccia presenza di soldati e cavalieri, per i quali scrive impacciatissime marce, quanto mai estranee alle sue corde espressive; come al solito, la partitura contiene spunti bellissimi, fiori smarriti nella vacua opulenza degli artifici teatrali. Bisognerebbe sempre tenere presente come Schubert si illudesse di potersi servire del canale operistico per far giungere al pubblico i suoi Lieder e i suoi brani corali; è sotto questa dimensione ‘utopistico-cameristica’ che il compositore affronta le insidie del confronto teatrale, destinato a priori al fallimento. Prodighe di pagine commoventi in senso assoluto, ossia se estrapolate dal contesto, le opere di Schubert mancano del più elementare nerbo teatrale e di ogni tensione drammatica, a conferma del talento squisitamente lirico e introspettivo dell’autore; eppure proprio l’ingenua ricerca di effetti spettacolari, volti a impressionare il pubblico, compromise, per le complicate acrobazie registiche che richiedeva, le esili possibilità di successo delle due sole opere che Schubert sia riuscito a vedere allestite. (Baldini & Castoldi)
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